Ti è mai successo di avvertire un senso di sopraffazione? Immagino di sì e provare questa sensazione oggi è sempre più comune a qualsiasi età e stadio professionale. Non è raro nemmeno per chi fa il lavoro più bello del mondo e il motivo è che viviamo nell’era del tutto troppo.
Oggi abbiamo troppo lavoro, troppi impegni, troppe cose da fare, troppe informazioni, troppi stimoli, troppo poco tempo e, per non farci mancare nulla, facciamo troppa fatica.
Ultimamente ogni persona che incontro, dalla più adulta alla più giovane, indipendentemente dal ruolo che ricopre o dal contesto in cui vive dice che è stanca, frustrata, piena, oberata, esaurita. Sono questi gli aggettivi più utilizzati e diventa sempre più difficile trovare qualcuno che si senta felice o soddisfatto della propria vita.
Il motivo di tutto ciò lo conosciamo bene ed è dato dal fatto che viviamo nel perenne ultimo chilometro di una maratona senza tempi di recupero, per citare una farse di Andrea Bariselli che ha ispirato questa newsletter.
Ma che significa questa metafora, esattamente?
Il danno di una narrazione distorta
Per anni il senso di stanchezza e di fatica sono stati considerati sinonimo indiscusso e positivo di efficenza all’interno dei management delle aziende: essere esausti significava aver lavorato sodo e aver dato il massimo.
Questa narrazione è stata portata avanti nel tempo fino a radicarsi nella cultura del lavoro, spinta dagli stessi professionisti che ancora oggi considerano il sacrificio senza limiti l’unica strada per raggiungere i traguardi personali e professionali.
Con il cambio generazionale e la diffusione di una maggiore attenzione verso il benessere mentale, però, le persone si sono fortunatamente rese conto che non è più così, che la continua stanchezza non va bene e che è possibile concedersi delle pause in questa maratona senza fine.
Ma allora perché, nonostante questa consapevolezza, continuiamo a pensare che più lavoriamo e più guadagniamo? Che più facciamo e più ci verrà riconosciuto un merito o un valore? Il problema è che siamo ancora vittime di questa narrazione tossica, la stessa che non accetta il fallimento e che spinge a tenere duro sempre e comunque, anche quando non vorremmo e ci ritroviamo a non aver più tempo di fare niente, neanche di stare con noi stessi.
Corriamo continuamente da una parte all’altra senza fermarci e non abbiamo tempo per prenderci cura di noi, degli altri e del mondo in cui viviamo che stiamo puntualmente distruggendo. E anche se dentro sappiamo benissimo che il tempo per vivere la vita che desideriamo ci sarebbe preferiamo auto convincerci – a volte con delle scuse assurde – del fatto che non è così e che dobbiamo continuare a correre.
Perché così funziona. Perché è così da sempre.
Non possiamo migliorare il mondo se siamo stanchi
La verità è che non ci sarà mai un’alternativa finché non verrà interrotta questa spirale che ci vede correre in cerchio senza mai fermarci. Tuttavia, l’alternativa va creata e non possiamo farlo in questo modo. Bisogna avere il coraggio di chiederselo: cosa resterà alla fine quando ci renderemo conto di aver sacrificato tutto, troppo?
Niente, questa è la risposta.
Ci penso molto spesso, ad esempio quando cammino nella natura o durante i momenti morti in cui la mente si stacca dal lavoro ed è libera di vagare senza necessariamente produrre qualcosa. È in questi momenti che sento di aver perso qualcosa lungo la strada ma so di essere ancora in tempo. Lo siamo tutti.
E pensarci è il primo passo verso una nuova consapevolezza dobbiamo riabituarci a fare delle pause, a resistere a quella che Jenny Odell nel suo libro definisce come “economia dell’attenzione“.
Forse per essere felici dovremmo interrogarci più spesso sulla frase di Bukowski che dice:
Resistere ha senso solo se ne esci con qualcosa in mano alla fine. Ma resistere tanto per resistere è l’infelice condizione di milioni di persone.